- L’hanno ammazzato.
- Come?
- Gli hanno sparato.
- Hanno già arrestato qualcuno?
- No.
- Ma si dice qualcosa?
- Le solite cose…non so di più.
È mia madre al telefono, ma potrebbe essere ogni altro esemplare della mia specie. Non muterebbe il tono distaccato, né quella pausa nella quale si annidano verità che fanno parte di un immaginario collettivo che ha il sapore del sangue e della vendetta.
Sono nata e ho vissuto la mia infanzia e parte dell’adolescenza in un paese dell’entroterra del Gargano. Terra di mafia rurale, ma io e quelli della mia specie, non lo sapevamo. Non sapevamo neppure cosa fosse la Sacra Corona Unita, per noi esisteva una realtà più tangibile che si svolgeva sulle nostre colline, fra le boscaglie, ed entrava, con una prepotenza che ritenevamo normalità, nelle nostre quotidianità. Pastori ignoranti si rubavano le vacche e si ammazzavano con fucili a due colpi. Non c’era bisogno di armi sofisticate. Per lo più si ammazzavano a distanza ravvicinata, segno di una conoscenza diretta. “N’an spartut socc”, commentavano i vecchi, intendendo che i banditi non avevano diviso equamente il bottino. Le indagini successive avrebbero portato alla supposizione di messaggi metodici, mutuando dalla letteratura mafiosa i segni distinguibili del reato di mafia. Era semplicismo, invece. Nulla di quanto accadeva ci pareva rapportabile alla faida che di per sé vede famiglie contrapposte, mentre vi era, fra i pastori, una sorta di fratellanza biblica, sebbene fosse difficile dare all’uno o all’altro le sembianze di Abele o Caino. I ruoli si alternavano e confondevano ché gli uni e gli altri vivevano in mezzo a noi, senza nascondersi. Non serviva: erano parte di noi. Piangevamo i loro morti e i nostri genitori partecipavano al corteo funebre. Non per paura, ma per rispetto verso le donne, vicine di casa delle nostre madri, delle nostre nonne, delle nostre zie. V’erano due vite parallele: quella degli uomini che si svolgeva nelle masserie e nei feudi o all’estero, nelle fabbriche tedesche, e quella delle donne che si svolgeva nelle case a pianterreno che favorivano gli scambi e facilitavano i rapporti, ad accudire i figli e far da mangiare. Un piatto a tavola non è mai mancato a quelli della mia specie, comunque andassero le cose. Non vi era differenza fra le donne. Erano donne, questo bastava a renderle uguali. Se l’universo femminile potesse far proprio questo senso di appartenenza al genere, depurandolo dalla sconclusionatezza della sua applicazione, ne potrebbe derivare una maggiore forza femminile,.
Non sapevamo cosa fosse la Sacra Corona Unita. Conoscevamo solo una Sacra Corona: quella di spine, posata sulla testa dei cristo-bambini che sfilavano in processione, sanguinanti di rossetto e appesantiti da croci di legno. Padre nostro che sei nei cieli e in ogni luogo. Ma non fra di noi. Ci aveva dimenticati. Era morto e ci aveva lasciati a purgare un peccato che non conoscevamo: l’indifferenza.
- Va bene, non sai di più…ma cosa si dice?
- Le solite cose. È figlio di una Vuccuccid. Ha… aveva… un figlio.
- La moglie?
- Non so, ho visto sua madre. Ha paura.
- Per il nipote?
- Certo, per cos’altro?
Gratto sulla patina ingiallita dei ricordi. Sono vivi e attuali: flashback ad alta definizione. Ricompongo i frame.È un ricordo freddo, come il corpo di un trentunenne ammazzato a colpi di fucile. Non mi sorprende la mia indifferenza, né l’intima consapevolezza che cela una sofferenza che vorrei rigettare sotto al tappeto del “basta che si ammazzino fra di loro”. Introspezione. Personaggi che girano in un loop di pensieri. Bocconi di rabbia e qualche manciata di orgoglio.
Le comari, sulla soglia delle porte, malamente sedute per via del grasso accumulato fra le cosce, a maggio recitavano il rosario. Fra un’ave maria piena di grazie e una santa maria madre di dio, le dita scivolavano su perle di speranza per i figli maschi per i quali era stato comprato, a caro prezzo, il futuro. Comprare posti di lavoro non era un segreto da custodire nel silenzio. Quello era riservato al disonore, che poteva, eventualmente, giungere dalle figlie. Le comari ne parlavano liberamente, lodando i mariti che avevano lavorato, quasi sempre onestamente, spaccandosi la schiena nei campi o nelle fabbriche tedesche, per accumulare quei cinque, dieci, quindici milioni che avrebbero assicurato il posto fisso al proprio rampollo. Fare i nomi dei trafficanti di lavoro non era, neppure quello, un segreto. Né lo erano le dinamiche e i cadeaux, oggetto di discussione e approfondimento. Vi era fra le comari una solidarietà che oltrepassava la soglia della dignità.
Le osservavo dai vetri della finestra. Non m’immischiavo. Non capivo tutto ciò che si dicevano e in quel non capire intrecciavo le prime basi della mia evoluzione che, allora, aveva solo il sapore della trasgressione.
Maggio era il mese della madonna, ma era anche il mese della mia transumanza: la scuola presto avrebbe chiuso i cancelli e sarei andata coi nonni materni, che mi facevano da madre, padre e tutori, al feudo.
I feudi, dalle mie parti, sono antiche masserie. Pennellate di bianco fra i toni verde cupo delle distese apparentemente brulle e solitarie. Fra il giallo delle ginestre e dei fiori di campo, i paesaggi di pietra e la vegetazione selvaggia, le lande, le garighe e la steppa mediterranea. Fra i lembi di querce e di uliveti. Fra i voli a spirito santo dei falchi grillai. Eccezionali manufatti rurali, testimonianza di un’intesa antica e perfetta fra l’uomo e l’ambiente.
In uno di quei feudi, fra i pochi non abbandonati, si sono svolte alcune estati della mia infanzia. La solitudine che vivevo in quel luogo era la moneta da pagare per sfuggire all’amore del Primo Padre e provare quella sensazione di libertà che faceva tacere gli urli notturni. I pensieri erano solo sussurri del vento.
Fu invocando i santi che il Primo Padre mi accolse nel suo abbraccio, raccontandomi la favola dell’amore e accusandomi di blasfemia per aver domandato se anche Cristo avesse amato allo stesso modo Maddalena. Avevo sei anni e già non ricordavo da quanto tempo avessi conosciuto l’amore. Era sempre esistito per me. Ero stata prescelta come l’ancella di Dio. Sia fatta di me la tua volontà.
Non ero spaventata, ero ingabbiata in una normalità che non mi apparteneva. Ero niente. Non potevo che recitare il ruolo dell’altro io: l’io normale, quello che mi salvaguardava dalla follia conclamata. Destinata a un eterno dualismo: pacatamente obbediente e orgogliosamente violenta. Di giorno l’io normale assorbiva tutte le mie energie e non aveva la forza di contrastare, di notte, l’io folle. E quello si manifestava violentemente con urli strazianti, improvvisi, angoscianti. Mi svegliavo sudata. Un contrasto di tranquillo terrore mi batteva nel petto, mentre mi scontravo con quell’io che nascondevo: l’io sbagliato.
Al feudo ero sola. Oltre ai nonni che lavoravano dall’alba al crepuscolo, c’erano i pastori che mi portavano il latte caldo, appena munto. Non entravano neppure in casa se non c’era mio nonno. Un segno di rispetto. Sebastiano, il pastore che pascolava le vacche nelle nostre terre, quando passava e mi portava la ricotta fresca e vellutata, mi diceva: Se hai bisogno, chiama. Io non ho mai chiamato e lui non è mai venuto.
Dormivo in un letto col copriletto fiorato. Lo immaginavo un giaciglio di fiori freschi o un prato verde dipinto su un muro di calce bianca.
La sera, prima di addormentarmi, al buio, mi sporgevo col corpo in avanti, penzolando da un lato e infilando la testa sotto al letto. C’erano le lucciole. Mai, in futuro, avrei pensato che sotto al letto potessero nascondersi mostri e fantasmi: sotto al mio letto brillavano le lucciole.
Il peso di una giornata nei campi spegneva ogni intimità. I nonni si scambiavano solo poche parole prima di addormentarsi. Una sera il tono della loro voce mi parve dissonante. Aleggiava fra le parole un alone di arcano che soffocava un’agitazione che non seppi circoscrivere. Mio nonno raccontò che nella grotta vicina all’orto del noce, che era il più esteso, aveva incontrato un tale Michele al quale aveva concesso il suo pasto, con la consegna di andar via, di non farsi più vedere, di non creargli problemi. Scambiai la concitazione per commozione e mi feci l’idea che Michele fosse un povero accattone bisognoso di cure.
Il giorno seguente avevo un obiettivo avvincente: rintracciare Michele e sfamarlo. Attesi che Sebastiano mi consegnasse, come ogni mattina, la ricotta e, invece di deporla nel piatto come mi era stato insegnato, gli chiesi di tenere la sporta, il recipiente di vimini che usavano i pastori e che dava un sapore particolare al formaggio. Ritenni che fosse più facile da trasportare. Sebastiano era un uomo semplice a cui sembrava strano trovarmi ogni giorno a leggere e scrivere. Quella richiesta dovette sembrargli quanto di più normale potesse attendersi da me: mi lasciò la ricotta, la sporta, e la foglia di fico che fungeva da coperchio. Infilai tutto nello zaino da campeggio che mi avevano spedito i miei genitori da Stoccarda e ci aggiunsi qualche fetta di pane.
Forse era coraggio, forse solo incoscienza fanciullesca. Mi sentivo l’eroe di un romanzo d’avventura. Esplorai gli antri che conoscevo. Ci sono molte grotte nel Gargano. Le storie di paese pullulavano di cadaveri lasciati marcire in questi enormi stomaci della terra. Passi felpati, concentrazione e batticuore. Avvertii un brivido di piacere toccando le pareti umide: la roccia respira e vive. Ancora oggi l’odore di muschio mi riporta a quel giorno.
La mia missione era nobile e superava ogni apprensione, ogni pretesa di obbedienza, ogni scrupolo di sincerità. Non temevo di morire. Mi spaventava, di sicuro, l’eventualità di trovarmi faccia a faccia con un cadavere putrefatto, uno di quelli delle storie, ma allo stesso tempo mi domandavo come sarebbe stato, quale emozione avrei saggiato.
Trascorsi tutta la mattina a cercare Michele, finché affaticata e affamata mi sedetti su un sasso, sotto una quercia: tirai fuori la ricotta e il pane e, dimenticando gli intenti filantropi, mi accinsi ad accontentare lo stomaco. Non incontrai Michele, ma incrociai la ferocia di un lupo con gli occhi rabbiosi e le zanne aguzze digrignate a pochi centimetri dal mio naso. Non ricordo se urlai o se il terrore mi rese muta. Accadde tutto in un attimo: il cane da pastore enorme addosso a me e la voce salda di Sebastiano che gli ordinava di star fermo. I nonni arrivarono dopo pochi minuti. Avevo camminato a lungo ma non mi ero allontanata. È strano come, da bambini, gli spazi e le misure siano percepiti in misura spropositata, enorme, gigantesca.
Non raccontai le mie intenzioni. Non si parlò più di Michele. Anni dopo avrei scoperto che il povero bisognoso che avevo premurosamente desiderato nutrire era Michele Tarantino, latitante e capostipite della famiglia Vuccuccid. Famiglia di pastori che, anni più tardi, il 28 marzo del 1981, avrebbe dato vita a uno degli episodi più efferati fra quelli della mia specie, facendo sparire in un nulla che ancora non ha una risposta, una famiglia di cinque persone il cui destino era segnato dal cognome e dal soprannome: Ciavarella, meglio noti, fra quelli della mia specie, come T’gnusid.
- Come?
- Gli hanno sparato.
- Hanno già arrestato qualcuno?
- No.
- Ma si dice qualcosa?
- Le solite cose…non so di più.
È mia madre al telefono, ma potrebbe essere ogni altro esemplare della mia specie. Non muterebbe il tono distaccato, né quella pausa nella quale si annidano verità che fanno parte di un immaginario collettivo che ha il sapore del sangue e della vendetta.
Sono nata e ho vissuto la mia infanzia e parte dell’adolescenza in un paese dell’entroterra del Gargano. Terra di mafia rurale, ma io e quelli della mia specie, non lo sapevamo. Non sapevamo neppure cosa fosse la Sacra Corona Unita, per noi esisteva una realtà più tangibile che si svolgeva sulle nostre colline, fra le boscaglie, ed entrava, con una prepotenza che ritenevamo normalità, nelle nostre quotidianità. Pastori ignoranti si rubavano le vacche e si ammazzavano con fucili a due colpi. Non c’era bisogno di armi sofisticate. Per lo più si ammazzavano a distanza ravvicinata, segno di una conoscenza diretta. “N’an spartut socc”, commentavano i vecchi, intendendo che i banditi non avevano diviso equamente il bottino. Le indagini successive avrebbero portato alla supposizione di messaggi metodici, mutuando dalla letteratura mafiosa i segni distinguibili del reato di mafia. Era semplicismo, invece. Nulla di quanto accadeva ci pareva rapportabile alla faida che di per sé vede famiglie contrapposte, mentre vi era, fra i pastori, una sorta di fratellanza biblica, sebbene fosse difficile dare all’uno o all’altro le sembianze di Abele o Caino. I ruoli si alternavano e confondevano ché gli uni e gli altri vivevano in mezzo a noi, senza nascondersi. Non serviva: erano parte di noi. Piangevamo i loro morti e i nostri genitori partecipavano al corteo funebre. Non per paura, ma per rispetto verso le donne, vicine di casa delle nostre madri, delle nostre nonne, delle nostre zie. V’erano due vite parallele: quella degli uomini che si svolgeva nelle masserie e nei feudi o all’estero, nelle fabbriche tedesche, e quella delle donne che si svolgeva nelle case a pianterreno che favorivano gli scambi e facilitavano i rapporti, ad accudire i figli e far da mangiare. Un piatto a tavola non è mai mancato a quelli della mia specie, comunque andassero le cose. Non vi era differenza fra le donne. Erano donne, questo bastava a renderle uguali. Se l’universo femminile potesse far proprio questo senso di appartenenza al genere, depurandolo dalla sconclusionatezza della sua applicazione, ne potrebbe derivare una maggiore forza femminile,.
Non sapevamo cosa fosse la Sacra Corona Unita. Conoscevamo solo una Sacra Corona: quella di spine, posata sulla testa dei cristo-bambini che sfilavano in processione, sanguinanti di rossetto e appesantiti da croci di legno. Padre nostro che sei nei cieli e in ogni luogo. Ma non fra di noi. Ci aveva dimenticati. Era morto e ci aveva lasciati a purgare un peccato che non conoscevamo: l’indifferenza.
- Va bene, non sai di più…ma cosa si dice?
- Le solite cose. È figlio di una Vuccuccid. Ha… aveva… un figlio.
- La moglie?
- Non so, ho visto sua madre. Ha paura.
- Per il nipote?
- Certo, per cos’altro?
Gratto sulla patina ingiallita dei ricordi. Sono vivi e attuali: flashback ad alta definizione. Ricompongo i frame.È un ricordo freddo, come il corpo di un trentunenne ammazzato a colpi di fucile. Non mi sorprende la mia indifferenza, né l’intima consapevolezza che cela una sofferenza che vorrei rigettare sotto al tappeto del “basta che si ammazzino fra di loro”. Introspezione. Personaggi che girano in un loop di pensieri. Bocconi di rabbia e qualche manciata di orgoglio.
Le comari, sulla soglia delle porte, malamente sedute per via del grasso accumulato fra le cosce, a maggio recitavano il rosario. Fra un’ave maria piena di grazie e una santa maria madre di dio, le dita scivolavano su perle di speranza per i figli maschi per i quali era stato comprato, a caro prezzo, il futuro. Comprare posti di lavoro non era un segreto da custodire nel silenzio. Quello era riservato al disonore, che poteva, eventualmente, giungere dalle figlie. Le comari ne parlavano liberamente, lodando i mariti che avevano lavorato, quasi sempre onestamente, spaccandosi la schiena nei campi o nelle fabbriche tedesche, per accumulare quei cinque, dieci, quindici milioni che avrebbero assicurato il posto fisso al proprio rampollo. Fare i nomi dei trafficanti di lavoro non era, neppure quello, un segreto. Né lo erano le dinamiche e i cadeaux, oggetto di discussione e approfondimento. Vi era fra le comari una solidarietà che oltrepassava la soglia della dignità.
Le osservavo dai vetri della finestra. Non m’immischiavo. Non capivo tutto ciò che si dicevano e in quel non capire intrecciavo le prime basi della mia evoluzione che, allora, aveva solo il sapore della trasgressione.
Maggio era il mese della madonna, ma era anche il mese della mia transumanza: la scuola presto avrebbe chiuso i cancelli e sarei andata coi nonni materni, che mi facevano da madre, padre e tutori, al feudo.
I feudi, dalle mie parti, sono antiche masserie. Pennellate di bianco fra i toni verde cupo delle distese apparentemente brulle e solitarie. Fra il giallo delle ginestre e dei fiori di campo, i paesaggi di pietra e la vegetazione selvaggia, le lande, le garighe e la steppa mediterranea. Fra i lembi di querce e di uliveti. Fra i voli a spirito santo dei falchi grillai. Eccezionali manufatti rurali, testimonianza di un’intesa antica e perfetta fra l’uomo e l’ambiente.
In uno di quei feudi, fra i pochi non abbandonati, si sono svolte alcune estati della mia infanzia. La solitudine che vivevo in quel luogo era la moneta da pagare per sfuggire all’amore del Primo Padre e provare quella sensazione di libertà che faceva tacere gli urli notturni. I pensieri erano solo sussurri del vento.
Fu invocando i santi che il Primo Padre mi accolse nel suo abbraccio, raccontandomi la favola dell’amore e accusandomi di blasfemia per aver domandato se anche Cristo avesse amato allo stesso modo Maddalena. Avevo sei anni e già non ricordavo da quanto tempo avessi conosciuto l’amore. Era sempre esistito per me. Ero stata prescelta come l’ancella di Dio. Sia fatta di me la tua volontà.
Non ero spaventata, ero ingabbiata in una normalità che non mi apparteneva. Ero niente. Non potevo che recitare il ruolo dell’altro io: l’io normale, quello che mi salvaguardava dalla follia conclamata. Destinata a un eterno dualismo: pacatamente obbediente e orgogliosamente violenta. Di giorno l’io normale assorbiva tutte le mie energie e non aveva la forza di contrastare, di notte, l’io folle. E quello si manifestava violentemente con urli strazianti, improvvisi, angoscianti. Mi svegliavo sudata. Un contrasto di tranquillo terrore mi batteva nel petto, mentre mi scontravo con quell’io che nascondevo: l’io sbagliato.
Al feudo ero sola. Oltre ai nonni che lavoravano dall’alba al crepuscolo, c’erano i pastori che mi portavano il latte caldo, appena munto. Non entravano neppure in casa se non c’era mio nonno. Un segno di rispetto. Sebastiano, il pastore che pascolava le vacche nelle nostre terre, quando passava e mi portava la ricotta fresca e vellutata, mi diceva: Se hai bisogno, chiama. Io non ho mai chiamato e lui non è mai venuto.
Dormivo in un letto col copriletto fiorato. Lo immaginavo un giaciglio di fiori freschi o un prato verde dipinto su un muro di calce bianca.
La sera, prima di addormentarmi, al buio, mi sporgevo col corpo in avanti, penzolando da un lato e infilando la testa sotto al letto. C’erano le lucciole. Mai, in futuro, avrei pensato che sotto al letto potessero nascondersi mostri e fantasmi: sotto al mio letto brillavano le lucciole.
Il peso di una giornata nei campi spegneva ogni intimità. I nonni si scambiavano solo poche parole prima di addormentarsi. Una sera il tono della loro voce mi parve dissonante. Aleggiava fra le parole un alone di arcano che soffocava un’agitazione che non seppi circoscrivere. Mio nonno raccontò che nella grotta vicina all’orto del noce, che era il più esteso, aveva incontrato un tale Michele al quale aveva concesso il suo pasto, con la consegna di andar via, di non farsi più vedere, di non creargli problemi. Scambiai la concitazione per commozione e mi feci l’idea che Michele fosse un povero accattone bisognoso di cure.
Il giorno seguente avevo un obiettivo avvincente: rintracciare Michele e sfamarlo. Attesi che Sebastiano mi consegnasse, come ogni mattina, la ricotta e, invece di deporla nel piatto come mi era stato insegnato, gli chiesi di tenere la sporta, il recipiente di vimini che usavano i pastori e che dava un sapore particolare al formaggio. Ritenni che fosse più facile da trasportare. Sebastiano era un uomo semplice a cui sembrava strano trovarmi ogni giorno a leggere e scrivere. Quella richiesta dovette sembrargli quanto di più normale potesse attendersi da me: mi lasciò la ricotta, la sporta, e la foglia di fico che fungeva da coperchio. Infilai tutto nello zaino da campeggio che mi avevano spedito i miei genitori da Stoccarda e ci aggiunsi qualche fetta di pane.
Forse era coraggio, forse solo incoscienza fanciullesca. Mi sentivo l’eroe di un romanzo d’avventura. Esplorai gli antri che conoscevo. Ci sono molte grotte nel Gargano. Le storie di paese pullulavano di cadaveri lasciati marcire in questi enormi stomaci della terra. Passi felpati, concentrazione e batticuore. Avvertii un brivido di piacere toccando le pareti umide: la roccia respira e vive. Ancora oggi l’odore di muschio mi riporta a quel giorno.
La mia missione era nobile e superava ogni apprensione, ogni pretesa di obbedienza, ogni scrupolo di sincerità. Non temevo di morire. Mi spaventava, di sicuro, l’eventualità di trovarmi faccia a faccia con un cadavere putrefatto, uno di quelli delle storie, ma allo stesso tempo mi domandavo come sarebbe stato, quale emozione avrei saggiato.
Trascorsi tutta la mattina a cercare Michele, finché affaticata e affamata mi sedetti su un sasso, sotto una quercia: tirai fuori la ricotta e il pane e, dimenticando gli intenti filantropi, mi accinsi ad accontentare lo stomaco. Non incontrai Michele, ma incrociai la ferocia di un lupo con gli occhi rabbiosi e le zanne aguzze digrignate a pochi centimetri dal mio naso. Non ricordo se urlai o se il terrore mi rese muta. Accadde tutto in un attimo: il cane da pastore enorme addosso a me e la voce salda di Sebastiano che gli ordinava di star fermo. I nonni arrivarono dopo pochi minuti. Avevo camminato a lungo ma non mi ero allontanata. È strano come, da bambini, gli spazi e le misure siano percepiti in misura spropositata, enorme, gigantesca.
Non raccontai le mie intenzioni. Non si parlò più di Michele. Anni dopo avrei scoperto che il povero bisognoso che avevo premurosamente desiderato nutrire era Michele Tarantino, latitante e capostipite della famiglia Vuccuccid. Famiglia di pastori che, anni più tardi, il 28 marzo del 1981, avrebbe dato vita a uno degli episodi più efferati fra quelli della mia specie, facendo sparire in un nulla che ancora non ha una risposta, una famiglia di cinque persone il cui destino era segnato dal cognome e dal soprannome: Ciavarella, meglio noti, fra quelli della mia specie, come T’gnusid.